L'idea nacque a Barcellona, in una riunione preparatoria del Forum Sociale Europeo di Firenze, e coinvolse soprattutto noi italiani e gli inglesi. Che eravamo diversi, ma anche gli unici in tutto il movimento no-global ad avere l'opposizione alla guerra nel codice genetico. Loro ci facevano ridere, intruppati sotto i cartelli One solution, revolution. A noi ci consideravano mammolette un po' gandhiane. Ma avevamo in comune i grandi movimenti pacifisti europei degli anni Ottanta. E la fiducia per aver fatto insieme Genova. Muoversi spettava a noi. I francesi e i brasiliani, che al movimento altermondialista avevano dato l'imprinting, il pacifismo neppure sapevano dove stava di casa. Nelle prime edizioni del Forum Sociale Mondiale a Porto Alegre avevamo imparato tante cose nuove su finanza e economia, ma pace e guerra no, quei temi parevano non esistere. Laddove tutto era iniziato, negli States di Seattle e delle Torri Gemelle, la situazione era veramente complicata. L'attacco alle Twin Towers, lo shock immenso e il richiamo all'ordine che ne era seguito avrebbero steso chiunque. Quando andammo in delegazione a Ground Zero, poco dopo l'11 settembre, le uniche che riuscivano a parlare di pace erano le chiese.
La guerra era entrata di colpo dentro al movimento per un mondo diverso. Prima con l'Afghanistan e poi con la preparazione dell'attacco all'Iraq.
L'Onu divenne il teatro per una commedia a colpi di bugie, di documenti falsi, di inchieste manipolate, mentre Bush cercava di legittimare l'attacco che aveva deciso di imporre al mondo - e anche al suo establishment, dove pure c'erano molte resistenze. E un altro tipo di guerra era già cominciata, con il diavolo vestito da musulmano e lo ‘scontro di civiltà’ che penetrava nelle società.
Ancora una volta, eccolo il mezzo perfetto del potere per recuperare terreno, inducendo la gente a dividersi su frontiere artefatte e non su quelle vere - quelle che dovrebbero unire i piccoli, gli onesti, gli sfruttati. Sapevamo che avremmo fatto Firenze ai confini dell'attacco all'Iraq. E che dovevamo pensare a qualcosa. Avevamo movimenti forti, mobilitazioni potenti, e finalmente una rete che con un click di computer ci teneva insieme in tutto il pianeta. Una bella differenza rispetto ai tempi eroici del pacifismo europeo degli anni Ottanta, dove per parlarsi bisognava incontrarsi di persona, l'Europa ancora si percorreva in treno, e a separarci dall'est c'era il Muro di Berlino.
L'idea venne fuori facilmente: scendere in piazza tutti lo stesso giorno. La negoziazione sui dettagli però durò a lungo. Molti volevano una data ravvicinata, a dicembre, per paura di arrivare dopo l'attacco. Noi insistevamo sulla necessità di avere il tempo per prepararla bene, per costruire la partecipazione di popolo. Alla fine decidemmo per il 15 febbraio. Poi cominciò la discussione sull'appello. Poche righe, pochissime. Ogni parola in più avrebbe significato qualcuno in meno. Sapevamo di essere una coalizione tremendamente eterogenea. E che dovevamo raccogliere tutti. Ci serviva chiunque dicesse no alla guerra. Ci sono i momenti in cui è bene andare a fondo nei contenuti. Ma se serve uno schieramento vasto per portare a casa un obiettivo, allora è diverso. Allora ti servono tutti, dalle monache agli antimperialisti. Al Forum di Firenze, una grande assemblea annunciò l'appuntamento. Due mesi dopo, a Porto Alegre, imbarcammo tutti i non europei.
Il 15 febbraio le manifestazioni cominciarono quando da noi era ancora notte fonda. Seguendo i fusi orari, attraversarono tutto il pianeta. Cominciarono la Nuova Zelanda e l'Australia, il Giappone e poi via via fino agli Stati Uniti, dove il movimento pacifista cominciò la sua riscossa, che lo riportò in poco tempo a essere il più grande del mondo.
Pure al Polo Nord, fecero una manifestazione. Quella di Roma fu la più grande. Inglesi e spagnoli dietro a noi, di poco. Il New York Times scrisse che eravamo la seconda superpotenza mondiale. Poi Bush attaccò l'Iraq. E al nostro interno, masochisti come sappiamo essere solo a sinistra, cominciò una discussione infinita sul fatto che avevamo perso. Come se fosse stato possibile illudersi di sconfiggere i poteri forti in un giorno, con un corteo sia pure immenso e grande quanto il mondo. Fra accettare le compatibilità date, chinando la testa, e buttarsi in imprese impossibili c'è un'altra via: fare politica. Che significa provare a fare quello che serve per cambiare i rapporti di forza a vantaggio del cambiamento. E che è compito primo delle organizzazioni di società civile progressista, perché è nella testa delle persone che va sconfitta l'egemonia culturale dell'avversario. Quel movimento non resse a lungo, ma seminò però ovunque il dubbio sulla bontà della guerra, le tolse pian piano consenso. Decostruì le basi dello scontro di civiltà. Diede fiducia ai militanti progressisti arabi, molti dei quali fanno risalire a quella data il preludio delle primavere arabe. E concimò negli Usa il campo sociale da cui è spuntato Obama.
Una bella storia, di cui siamo stati parte. Da tenersi cara per ricordare che sfidare i forti, anche quando sembrano invincibili, è sempre possibile.
Raffaella Bolini