Liberare il lavoro, declinarlo con l'ambiente. La solidarietà dell'Arci ai lavoratori dell'Ilva di Taranto e di Genova

Liberare il lavoro, declinarlo con l'ambiente. La solidarietà dell'Arci ai lavoratori dell'Ilva di Taranto e di Genova

Creato: Wed, 19/12/2012 - 16:58
di: Piemonte
Liberare il lavoro, declinarlo con l'ambiente. La solidarietà dell'Arci ai lavoratori dell'Ilva di Taranto e di Genova

di Alessandro Cobianchi, presidente Arci Puglia, e Lorenzo Cazzato, presidente Arci Taranto

Taranto, 2010. Emilio Riva inaugura, con un suo editoriale, il numero uno de Il Ponte, rivista targata Ilva spa. Titolo impegnativo, quello scelto dal patron della fabbrica siderurgica che fu fiore all’occhiello dello Stato, per il suo giornaletto patinato. Echi di neorealismo e di Resistenza, echi di Piero Calamandrei e di una classe dirigente che sapeva essere soprattutto classe intellettuale. Nelle righe di presentazione del free press, Riva scrisse, di se stesso, che il termine ‘capitalista’ non gli si confaceva. Meglio – scriveva – essere considerato un ‘imprenditore’. Tattiche sublimi della ‘nobile arte’ del rivoltamento della frittata: scherzare con le parole per imputridire – è veramente il caso di dirlo – le acque (dei due Mari) con tanto di mitili. Tanto che a Taranto, anno 2012, dei propositi dell’Ilva e dei suoi vertici (capitalisti o imprenditori che essi siano) restano soltanto le nude cifre. 386, come i morti di fabbrica negli ultimi 13 anni. 1421, come quelli che, di fabbrica, si sono ammalati. 5000, come le persone che, per colpa di una sciagurata gestione industriale lunga oltre un decennio, rischiano di finire per strada, a far la fila fuori dei centri dell’impiego di una delle città più mortifere d’Europa, 1300 come i capi di bestiame abbattuti perché considerati alla stregua di bombe di veleno, dannosi per il consumo umano. E siccome nulla è più innegabile delle cifre, le cifre di Taranto sono inesorabilmente univoche, e segnano una doppia sconfitta. Strutturale e, insieme, politica. Infatti, la gestione dell’Ilva parla desolatamente la linguamadre che è propria del capitalismo italiano. Un capitalismo storicamente retrogrado, palesemente poco coraggioso e notoriamente ‘straccione’, risultato economico di un’imprenditoria predatoria, tutta schiacciata sul profitto e incurante del progresso. Una classe evanescente, per lo più pruriginosa alle regole e allergica al concetto di bene comune (ambiente, lavoro, acqua, ma anche diritti sindacali e personali dei lavoratori), se non quando si tratta di ricezione di benefici fiscali o sussidi a getto, figlia di quella che ha silenziato le masse operaie negli anni Settanta ed estromesso il pubblico dalla proprietà (e che, spesso, usa le stesse metodologia, come dimostrano le prese di posizione di Marchionne in Fiat). Ma cui, pure, non è bastato il risultato del campo sgombro da intromissioni. E che, anzi, libera di agire, ha avuto modo di palesare i suoi enormi limiti. Ma quel che è peggio è che a Taranto, come a Pomigliano, a Mirafiori e in centinaia di altri stabilimenti in Italia, ne è uscito a pezzi il concetto stesso del lavoro. Costituzionalmente, garanzia bastevole per dirsi cittadini; in effetti, pistola carica da puntare alla tempia di quanti si pongono domande, spauracchio, persino feticcio da sventolare in faccia a chi si chiede se si muore prima senza lavoro o di tumore. Addirittura, una figurina da scambiare con altro, un tarocco del mercante in fiera da barattare: lavoro o ambiente; lavoro o vita; lavoro o diritti. Liberare il lavoro, dunque. Ecco cosa occorre. Dai ricatti, dalle catene di chi lo impone quale privilegio, di chi lo sottende a favori e preghiere. A chi lo considera una zavorra, una stretta di mano nel nome della quale tutto il resto non conta. A Taranto, più che mai, questo significa declinarlo con l’ambiente.

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