E la chiamano spending review. L’inglese può fare effetto, ma in realtà di nient’altro si tratta se non di una nuova manovra finanziaria. Esattamente quello che fin qui il governo in carica aveva smentito di voler fare. Le cifre infatti saranno anche noiose, ma parlano chiaro: la manovra correttiva varata sotto la falsa specie della spending review vale ben 4,5 mld di euro per il 2012; 10,5 mld di euro per il 2013; 11mld di euro per il 2014. Come si vede l’attuale governo progetta tagli ben al di là della sua durata e di quella della legislatura. Nello stesso tempo l’aumento delle aliquote Iva - quindi l’incremento dei prezzi al consumo per tutti, che era la foglia di fico per giustificare la nuova manovra - è tutt’altro che scongiurato, ma solo rinviato di un semestre.
Intanto le previsioni dei centri di ricerca nazionali (particolarmente severo quello della Confindustria) e internazionali (Eurostat e Ocse) prevedono per l’Italia un ulteriore calo del Pil sia per l’anno in corso - si parla di un meno 2,7% - che per il 2013, da cui in molti si attendevano ben altre performance. La manovra del governo non corregge affatto questa situazione, anzi la deprime ulteriormente diminuendo l’occupazione, la capacità di spesa, la qualità dei servizi sociali essenziali. Come ha peraltro riconosciuto lo stesso ministro Giarda, il decreto attualmente al Senato riproduce pedissequamente la logica dei tagli lineari tanto cara a Tremonti. Prendiamo ad esempio il caso della sanità. Su di essa era già intervenuto il decreto legge 98 del 2011. Infatti la spesa era già stata ridotta rispetto al 2010, con un disavanzo in continua diminuzione. Non avveniva dal 1993, quando iniziò la contrazione del finanziamento statale, con l’ovvia creazione di disavanzi sommersi a livello regionale che allora però furono ripianati dallo Stato, cosa ora non più possibile a causa delle pesanti norme restrittive del patto di stabilità interno e della costituzionalizzazione del pareggio di bilancio. Il nuovo decreto non fa altro che incrementare o anticipare i tagli già previsti dal precedente, fino a misure particolarmente odiose come la riduzione dei posti letto ospedalieri a 3,7 per 1000 abitanti. La logica della contrazione dei tetti di spesa taglia in modo iniquamente uguale ciò che serve – e che magari costa meno – e ciò che alimenta gli sprechi – e che costa di più. Quando non si interviene sulla qualità della spesa ma solo sulla sua quantità, riducendo ulteriormente la spesa sanitaria sul Pil, non si fa altro che caricarla sulle tasche dei cittadini, i quali comunque devono curarsi. La stessa logica attuata con la sanità viene ripetuta negli altri settori. è così che si giunge a decisioni clamorose come il taglio alla ricerca scientifica mentre i nostri scienziati scoprono il bosone di Higgs. Oppure alla riduzione della spesa per l’istruzione pubblica, mentre si alimenta il finanziamento a quella privata. L’obiettivo è sempre e comunque quello, fare dimagrire lo spazio pubblico per aprire nuovi varchi a quello privato. In questo quadro il pubblico impiego non poteva sfuggire alla mannaia. Si prevedono tagli nei prossimi tre anni per i dirigenti (meno il 20%) e per il personale non dirigenziale (meno 10%). C’è chi fa i conti e scopre che comunque non ci saranno risparmi perché l’eliminazione di stipendi pubblici verrà compensata dagli oneri aggiuntivi per la spesa pensionistica (a parte le liquidazioni). Ma il segnale politico conta di più. Infatti la lettera della Bce inviata il 5 agosto dell’anno scorso all’allora in carica governo Berlusconi, conteneva al punto 2 il seguente pressante invito: «Inoltre, il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover e, se necessario, riducendo gli stipendi». Basta leggere il decreto sulla presunta spending review di Monti, per capire che siamo di fronte all’implementazione di quanto dettato dalla Bce a Berlusconi e che quest’ultimo non fu in grado di attuare.
In allegato, alcuni dati sulla disoccupazione in Italia.
18.07.2012 - www.arci.it