La Palestina che resiste

La Palestina che resiste

Otto giorni intensi viaggiando da un posto all’altro, tra Palestina e Israele: Gerusalemme, Bethlehem, Haifa, Ramallah, il campo profughi di Dheisha, Hebron, Beit Sahour.
 
In mezzo tante cose: incontri davanti a una birra o un thè, la conferenza all’università di Bir Zeit di Defence for Children contro lo sfruttamento minorile, il diritto che vale diversamente a seconda che tu sia israeliano o palestinese, gli insediamenti dei coloni, il paesaggio che si trasforma gradualmente, inesorabilmente; e poi percepire nell’aria la lotta per la libertà e la dignità di un popolo e per il diritto ad avere uno Stato, sentirla come battaglia comune; e ancora il piacere di rincontrare vecchi amici e di scoprirne di nuovi.
 
Proprio partendo dai nuovi amici provo a raccontare la Palestina che resiste ogni giorno, che coniuga la battaglia politica all’azione culturale, che sa essere radicata alla propria terra ma guarda fuori, al Mediterraneo e al mondo, con curiosità e interesse, sentendo che il rispetto e l’esigibilità dei propri diritti è diritto basilare dell’essere umano, ovunque.
 
Saleh Bakri e Khaled Jarrar sono quasi coetanei: Khaled è nato a Jenin e ora vive a Ramallah, Saleh è nato in Galilea e vive ad Haifa. Parlano della Palestina e del mondo attraverso le arti visive. Saleh è un attore, la sua è una famiglia di artisti: i fratelli sono attori, il padre è Mohamed Bakri, attore a sua volta, e regista di Jenin Jenin, il film documentario che raccontò al mondo l’assedio del villaggio in West Bank da parte dell’esercito israeliano nel 2002.
 
«Recitare, il cinema, è un’arma che mi piace usare. So come usarla bene e non ho idea di come usarne qualsiasi altro tipo. Si, questa è l’unica arma che davvero so come usare: e io la uso». Attraverso i film da lui interpretati, da The time that remains di Elia Suleiman a The salt of this sea, della regista palestinese americana Annemarie Jacir, è possibile ripassare la storia della Palestina, dalla Nakba al 1967. Ci incontriamo prima che lui parta per il festival di Abu Dhabi; mi racconta perché non vuole lavorare con produzioni israeliane, e di come il diritto al ritorno sia una delle questioni fondamentali nella costruzione di un reale processo di pace; e poi i suoi lavori in Italia da Fireworks, girato a Taranto, a Salvo che dalla Sicilia passa di festival in festival. Khaled è invece un regista, fotografo, performer, con un passato da ufficiale nelle guardie scelte di Yasser Arafat. Dieci anni fa i primi lavori da artista, la scelta di riprendere gli studi, la performance At the check point e adesso un film Infiltrators, presentato lo scorso settembre al Festival del cinema di Milano, che racconta la vita attorno al muro e i mille espedienti attraverso cui i palestinesi lo attraversano, per sopravvivere, e senza passare dai check point. Khaled ha anche partecipato nel 2011 a Roma alla Biennale dei giovani artisti dell’Europa e del Mediterraneo; ha inoltre realizzato dei bozzetti per i francobolli per lo Stato di Palestina, emessi ufficialmente dalle poste olandesi e tedesche.
 
Ci sono gli amici di sempre, quelli dei tempi di Salam I ragazzi dell’olivo e di Time for Peace, gli ex ragazzi della prima Intifada che tiravano pietre contro l’ingiustizia: Fadwa Khader, che adesso lavora con la municipalità di Ram, uno dei dintorni di Gerusalemme devastato dal passaggio del muro (che - è bene ricordare - nel suo percorso di ingabbiamento della Palestina si estende per più di 700 km), Nasser Attallah e Riad Arar, che continuano a occuparsi ostinatamente di diritti dei minori, Ashraf Shaheen che tiene in vita il centro culturale italo palestinese a Bethlehem.
 
Tutti loro hanno sempre un pensiero di grande affetto e riconoscenza per Renzo Maffei, di cui parlano ogni volta con sincera commozione.
 
E poi Ahmad Jaradat, dell’Alternative Information Center di Beit Sahour, ma anche uno dei principali animatori del network sui media El Jossour messo in piedi nel 2008 dal Forum delle alternative del Maghreb. Con Ahmad parliamo a lungo degli insediamenti dei coloni israeliani, la cui costruzione non si è mai bloccata, in totale disprezzo delle indicazioni emerse dal processo di Oslo. Ad oggi, solo attorno a Bethlehem, se ne contano 22.
 
Infine quelli che non siamo riusciti a incontrare, perché il permesso per andare a Gaza non è arrivato in tempo o perché troppe le cose da fare, da Zvi Shuldiner a Dyala Husseini, dalle donne di Al Nadja e gli amici del Remedial Educational Center, impegnati nel progetto del Bibliobus.
 
Per questo I say Palestine, anche grazie a questo patrimonio di relazioni umane che ci accompagna.
 
Anna Bucca, presidenza nazionale Arci
 
(29/10/13 - ArciReport n.39